UNA SETTIMANA DI MISSIONE, E LA GIOIA PERFETTA - ONE WEEK OF MISSION, AND THE PERFECT JOY
Da una settimana circa sono in Messico, in un piccolo centro nel Nord, per un periodo di Missione con dei frati trovati negli Stati Uniti, una fraternità bellissima.
Quando ero piccola e mi chiedevano cosa volessi fare da grande, pensavo nel cuore: “La Missionaria in Africa”. Col tempo e con discernimento, ho compreso che quel desiderio non era di una vita da consacrata religiosa, ma della missione come stile di vita. Missione sempre, in ogni luogo in cui Dio mi avrebbe inviato.
La gente, guardando la mia vita, dice spesso: “Viaggi tanto, viaggi sempre!” Non sa che viaggiare, per me, é sempre stato un modo per "partire in missione", per rispondere alla volontà di Dio e a quel desiderio fortissimo che mi ha messo nel cuore da quando sono bimba: portare il Suo amore in qualunque situazione in cui ce ne sia bisogno.
Il mio lavoro ne é diventato parte – sono benedetta nel non doverlo lasciare, per partire, o non dovermi ritagliare spazi e tempi nell’organizzazione della vita, per andare in Missione: posso semplicemente andare, e rendere il mio lavoro parte di quel tempo, usarlo per servire. Perché alla fine é questo, il senso ultimo della Missione: il servizio.
E’ stato servizio il lavoro in Palestina, quando facevo del mio meglio per raccontare in onestà le ingiustizie che vedevo perpetrate ogni giorno nei Territori Occupati; é stato servizio il lavoro a New York, quando nel centro di Manhattan provavo a portare Gesù tra le strade e le storie di quel pezzo di mondo; é tuttora servizio il mio lavoro nell'evangelizzazione, condividendo storie di speranza, esempi di conversione, aiuti nel vivere una vita più consapevole di fede.
Eppure, la missione con i poveri, é un’altra cosa. La gioia che mi porta dentro é unica e assolutamente completa. Non c’é niente che manchi, il mio cuore é totalmente pieno, perfetto di amore.
In Africa ci sono stata poco ma il mio cuore l’ho lasciato lì. Il centro coi bambini di strada, in Kenya, in cerca disperata di figure materne da cui sentirsi amati, mi ha cambiata per sempre. Mi ha mostrato una "letizia perfetta", come diceva San Francesco, nel toccare con mano quanto il cuore possa esplodere di gioia quando scopriamo il dono di noi stessi e del nostro tempo, ma soprattutto, quando tocchiamo Gesù, concretamente. E nel bisogno, nei poveri, c'é Gesù, come in nessun altro luogo, in nessun altro volto.
C'era a chi bastava di stringermi una mano, su un muretto vecchio, senza neanche guardarmi. Così, per minuti. C'era chi mi aspettava la sera per insegnarmi il Swahili, con giochi e canzoni, e che se non tornavo al centro, dopo cena, il giorno dopo mi chiedeva: "Dov'eri, ieri sera?"
In Messico é diverso – la slum di Kibera, a Nairobi, nella sua emergenza quasi disperata, é lontana – ma il dolore é dolore sempre, e anche qui, sebbene in proporzione diversa, ci sono situazioni al limite che hanno bisogno di essere amate, quotidianamente e fino in fondo.
L’altro giorno siamo andati a visitare una coppia di anziani in un quartiere molto povero.
Lei, Donna Maria, é quasi completamente cieca. Stava su un divano lurido e mangiato dai topi, nel piccolo giardino, sporco e abbandonato, della casa. Passava il tempo provando ad infilare un ago con del filo dentro a un vecchio cuscino, come probabilmente aveva fatto tante volte, nel passato. Si lamentava dei fantasmi, che diceva di vedere intorno, e della gente morta che le appariva sulla porta di casa. Non beveva un goccio d’acqua da giorni. Qui non é potabile e non aveva più acqua di bottiglia.
Dentro, suo marito, stava su di un letto, dolorante. Ecco perché non era andato a comprarla. Da qualche settimana aveva un’ infezione nella parte inferiore della gamba e al piede, che ormai erano diventati completamente neri. L’altra missionaria mi dice che non erano riusciti a trovare un medico che potesse andare a visitarlo di persona, e gli avevano soltanto mostrato delle foto, sulla base delle quali aveva dato delle medicine, che ora languivano sul pavimento sporco. Piangeva. Come une bambino impaurito. Aveva dei vestiti sporchi, e la maglietta sporca di saliva o di vomito. Piangeva, e vedere questo anziano diventare un bimbo, in un secondo mi ha spezzato il cuore. L'ha spezzato, e l'ha aperto, spalancato. Non ci ho pensato un attimo e ho iniziato ad accarezzarlo. La sua pelle, sporca e vecchia, era morbidissima. Ho pensato al paradosso dell'umanità: se gettiamo il cuore oltre la resistenza dell' amare, scopriamo la grazia inaspettata e grandissima di Dio. L'abbiamo aiutato a sollevarsi e sedersi sul letto. La pelle scottava dal calore del giorno. Ho cercato una pezza in qualche modo più pulita, l'ho bagnata, e gli ho accarezzato il volto e la fronte con dell'acqua fresca. Mentre il suo corpo riprendeva coscienza, ha smesso di piangere. Ha chiuso gli occhi, e si é lasciato accarezzare, come se fossero ere che qualcuno non lo toccava con delicatezza.
In quel momento, ho visto Gesù. Non era più un uomo sconosciuto, era Gesù. Il mio cuore l'ha visto, l'ha riconosciuto come niente altro al mondo, quell'uomo era Gesù. Senza dubbio, senza nessuna incertezza, senza ombra.
Aveva il corpo dolorante, gli ho fatto dei massaggi come meglio potevo, si é rilassato e ha bevuto dell'acqua. Gli abbiamo dato le sue medicine, l'abbiamo messo comodo, e fatto pranzare. Mi ha indicato un vecchissimo televisore polveroso che non funzionava più: "Non posso vedere neanche un film". Non ne so niente di televisori ma ho iniziato a smanettarci, mentre pregavo Dio che mi facesse trovare un modo per farlo funzionare. Ho tolto e messo cavi, scambiandoli più volte. Dopo 10 minuti, mentre continuavo a pregare: "Signore, ti prego, almeno il piccolo conforto di un film da guardare" il televisore si é improvvisamente messo a funzionare. Ho quasi urlato di gioia. L'uomo ha accennato un sorriso; ha ritrovato il buonumore al punto tale che quando é arrivata sua moglie che provava a scacciare gli spiriti cattivi col bastone che agitava prepotente sulle loro teste, ha iniziato addirittura a ridere. La vecchia radio mandava canzoni messicane, e la luce é ritornata nella stanza.
Prima di addormentarmi, quasi ogni sera, penso a quei bambini in Africa che mi aspettavano, dopo cena, per insegnarmi il Swahili. E a me, che sono ripartita troppo presto per impararlo. Ai loro occhi lucidi di gioia quando ridevamo insieme, ai miei occhi lucidi di commozione quando ho sentito che gli uni per gli altri siamo tremendamente importanti, solo che abbiamo smesso di saperlo e di sentirlo.
Viviamo le nostre piccole vite pensando di essere un po' più felici, perché "padroni totali" del nostro tempo, che poi, a parte il lavoro, non passiamo a fare altro che guardare serie sul divano di un salotto, mangiare e bere in posti costosi e magari mediocri, viaggiare senza scoprire veramente niente di un luogo, chiusi in resort fatti ad arte, per "disintossicarci" della vita ipoteticamente libera che avremmo scelto. Il mondo occidentale é diventato un controsenso di scelte e di senso stesso. Conosco decine di persone sulla soglia di una depressione, di una crisi di stress, o quantomeno sempre e costantemente infelici. E' la malattia del nostro tempo: l'infelicità, e non sappiamo come si fa a guarire. Abbiamo così tanto tolto alle nostre vite, in nome della libertà assoluta, che ne abbiamo tolto il senso stesso. E senza senso, la vita non può essere vissuta; lungi dall'essere piacevole e leggera, diventa un macigno fin troppo pesante da portare.
Guardatevi intorno e ditemi quante persone veramente felici conosciate nella vostre cerchia di persone, e poi riflettete sul tipo di vita che hanno. E' una vita "persa", in senso evangelico? Cioé "donata", "data"? Per un amore, una famiglia, una vocazione, dei bambini, del servizio? O é una vita per sé stessi?
In Missione hai del caffé mediocre che ti hanno dato i frati, e un pentolino vecchio su una cucina a due fuochi dove bollire l’acqua, se funziona. Ne prendi uno al mattino e forse uno al pomeriggio. Sanno di mondo antico, e sono più che sufficienti. La stanchezza ti entra nelle ossa ma il tuo cuore é sveglio come quello di un bambino che non vuole andare a letto per la troppa vita che gli esplode dentro.
A casa ho quattro macchinette del caffe. Due Bialetti, il Nespresso con le cialde, la French press, e un marchingegno trovato in Costa Rica. Prendo anche più di quattro caffé al giorno, sofisticati, buonissimi, costosi. Sanno di stanchezza e non sono mai abbastanza.
In missione i miracoli si toccano. Non hai tempo e non hai risorse per la perfezione. Troppe sono le cose che non sai esattamente cosa fare, come farle, e dove farle. Ma le situazioni sono d'emergenza, l'azione é d'obbligo, e allora agisci, fai del tuo meglio, pregando dentro che Dio possa dove tu non puoi. E la maggior parte delle volte é quello che succede, ci pensa Lui, e vedi piccoli, grandi miracoli accaderti sotto gli occhi, praticamente tutti i giorni.
"A casa" non é mai giusto il tempo, non é mai giusto il modo, per troppe cose. Si aspetta, si pospone, si ha paura, si rimane incastrati nei dubbi. E così la vita passa, le cose non succedono e Dio, anche volendo, non può agire, perché non gliene abbiamo dato l'opportunità. Nella parte di mondo dove si può avere tutto, si finisce per non avere niente, perché il diavolo ci ha intrappolato in questa illusione della perfezione, che invece non esiste. Se non sperimentiamo la mancanza, non possiamo trovare il vero senso della vita.
In missione ho capito quello che Padre Walter, il sacerdote Scalabriniano che guidava la televisione dove lavoravo, mi diceva: "La perfezione é nemica del bene". Lui, che della missione aveva fatto la sua vita, lo sapeva molto bene.
In missione si scopre che il tempo non é poco. Ci si sveglia prima delle sei tutte le mattine: per pregare, innanzitutto. Gesù ci aspetta nel buio della notte per prendersi tutte le fatiche che non siamo in grado di portare, e darci la forza per affrontare un nuovo giorno. Poi si inizia a fare cose. Donazioni, cucinare, distribuire cibo, visitare famiglie, accogliere i bambini, classi e giochi. Fare rete, connettersi con medici, associazioni, gli altri frati. E poi si torna, in preghiera, ancora. Si torna a inginocchiarsi perché non é mai abbastanza, siamo dipendenti da Cristo. E poi, se c'é ancora dal lavoro da fare, la sera é placida e i grilli cantano, la natura ti abbraccia e continui fino a quando devi andare a letto, altrimenti non dormi neanche cinque ore, ma che importa?
A casa si soffre sempre del non trovare il tempo. Il giorno passa e non sappiamo dov'é andato. E' che passa a volte solo per noi stessi, ed é cosi che lo svuotiamo di significato, e il tempo ci possiede. Quando diamo senso alla vita, siamo noi a possederlo, e pochi giorni sembrano preziosi. Al contrario, quando la nostra vita manca di scelte che abbiano un senso profondo, il tempo ci sembra che ci scivoli tra le mani e che si perda in luoghi che non conosciamo. Nella grazia di Dio, se glielo permettiamo, ma é pur sempre tempo che non torna.
L’elisir di lunga vita non é una tecnologia segretissima e costosa. Paradossalmente, é proprio il suo dono che la rende tale, il dono stesso di se stessi agli altri, ad una causa, a dei corpi, a dei volti, che allunga la vita, che da senso al tempo. L'elisir di lunga vita si chiama amore, e amore e basta.
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